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Responsabilità da prodotto difettoso e garanzia per vizi
Il principale merito della disciplina consumeristica attiene alla definizione, anche se elastica, del concetto di prodotto difettoso. Si tratta a ben vedere di una definizione “relazionale” in quanto la “difettosità” del prodotto è collegata alla legittima aspettativa che il consumatore ha della sicurezza del prodotto stesso, tenuto conto di tutte le circostanze di specie e, in particolare: a) del modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, della sua presentazione, delle sue caratteristiche palesi, delle istruzioni e delle avvertenze fornite; b) dell’uso al quale il prodotto può essere destinato e dei comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere; c) del tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.
Per garantire al meglio la sicurezza, intesa come diritto alla salute ex art. 32 Cost, ma anche al fine di allocare equamente i rischi connessi al processo di produzione, il legislatore ha predisposto un modello di responsabilità oggettiva (c.d. strict liability), in ragione del quale la responsabilità si radica in capo al produttore a prescindere dall’elemento soggettivo (dolo o colpa), in base al solo rapporto di causalità materiale tra il fatto proprio (difetto) e l’altrui evento dannoso.
La ratio sottesa al modello in questione è certamente quella di favorire il consumatore, alleggerendo – quasi fino ad invertire – l’onere della prova su di sé incombente. Una volta che il consumatore ha infatti provato di aver subito un danno dal prodotto che non offre la sicurezza che si poteva ragionevolmente attendere da esso, sarà il produttore a dover provare di non essere responsabile.
In estrema sintesi, allora, può ritenersi che la responsabilità del produttore dipenda dall’uso del prodotto che l’utente ne vuol fare e dai comportamenti che in relazione ad esso possono ragionevolmente prevedersi. In applicazione di tali criteri la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che il danno subito da colui che si serve di un cosa può essere addebitato ad un difetto di costruzione, se tale cosa è stata utilizzata secondo la destinazione che il produttore poteva ragionevolmente pretendere e se il comportamento tenuto dall’utente era ragionevolmente prevedibile, a meno che l’utente non fosse stato posto in grado di rappresentarsi che alcuni di quei modi di uso andavano evitati perché avrebbero potuto determinare un danno (Cass. sent. n. 4662/2005).
La difettosità del prodotto allora si estrinseca in una serie di ipotesi legislativamente tipizzate ma non può esaurirsi in esse, essendo la sicurezza correlata, altresì, al complesso di circostanze che possono rilevare caso per caso. A seconda della causa e della fase in cui il difetto si manifesta possono essere individuate due categorie differenti. La prima riguarda il “difetto di progettazione” consistente in una insicurezza nella fase dell’ideazione del prodotto, relativa al design; mentre, la seconda, attiene al “difetto di produzione” concernente la composizione del prodotto.
A tal riguardo, la giurisprudenza di legittimità e di merito più recente ha inteso ampliare il concetto di difettosità (intesa come mero vizio di costruzione del prodotto) estendendolo all’ipotesi di: a) mancanza o incompletezza delle informazioni rese dal produttore; b) vizio intrinseco del bene. Esiste dunque in capo al produttore un dovere di informazione la cui carenza pregiudica la sicurezza stessa del prodotto commercializzato laddove una corretta e completa informazione è in grado di neutralizzare la pericolosità intrinseca del prodotto e quella connessa a determinate possibilità dell’uso dello stesso.
Disciplina speciale e codice civile
Occorre a questo punto evidenziare il rapporto intercorrente tra la disciplina speciale e quella generale predisposta dal Codice civile relativamente agli obblighi rivolti al venditore. In tal senso, l’art. 1490 c.c. impone al venditore di garantire al compratore che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. Il “vizio” che il legislatore qui contempla consiste in un quid minus, una inidoneità congenita al materiale o alla compatibilità del materiale alla cosa che può manifestarsi anche mediante un difetto, strutturale o di valore. A contrario, il “difetto” può essere identificato come la carenza di funzionamento del prodotto che può derivare dal palesarsi di un vizio occulto o dalla perdita anche parziale della funzionalità del bene. Ne consegue allora che il vizio agisce a monte del difetto potendone essere semmai l’elemento scatenante.
La scelta tra la disciplina applicabile produce effetti considerevoli soprattutto con riferimento all’onere di ripartizione dell’onere della prova. Come è oramai assodato, alcuna contraddizione risulta tra le due discipline. Esse infatti non si pongono in contraddizione anzi la disciplina consumeristica aggiunge maggiori tutele alla posizione dell’acquirente insoddisfatto. A tal proposito, la giurisprudenza più recente ha espressamente chiarito che è ammissibile il concorso tra la normativa generale in tema di garanzia per i vizi del prodotto compravenduto e la normativa speciale in tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso, poiché è possibile che il danno alla persona del consumatore o ai suoi beni sia conseguenza dei vizi del prodotto compravenduto.
Le considerazioni appena svolte conducono a condividere l’opinione di chi ritiene che la direttiva 85/374 prima e il codice del consumo poi, si pongano in un rapporto di continuità con i principi sulla responsabilità del venditore per vizi della cosa venduta per adeguarli al carattere del sistema distributivo basato sulle vendite a catena dei prodotti industriali.
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avv. Elisa Boreatti avv. Salvatore Capone
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