OMOGENITORIALITA’: NON E’ COMPITO DELLA CORTE COSTITUZIONALE OCCUPARSENE

Elisa Boreatti

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La Corte Costituzionale afferma che lo stabilire se due donne possono essere registrate come madri o meno nei registri dello stato civile di un bimbo nato all’estero a seguito di fecondazione non è suo compito. In quanto atto che attiene gli interessi del minore deve occuparsene in legislatore.

 

La Corte Costituzionale con il deposito della sentenza n. 230 del 4 novembre 2020, ha enunciato le motivazioni che hanno portato a dichiarare l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Venezia in relazione alla Legge sulle unioni civili (L. 76/2016) e al decreto sugli atti dello stato civile (Decreto n. 396/2000).

Il caso.

Il caso di specie riguardava due donne unite civilmente, una delle quali con il consenso dell’altra aveva concepito all’estero un figlio poi nato in Italia attraverso l’avvio della pratica di fecondazione medicalmente assistita.

Successivamente, entrambe le donne chiedevano di essere registrate all’anagrafe come madri del bambino vedendosi così respingere la richiesta dall’Ufficiale dello stato civile.

Le predette, pertanto, adivano il Tribunale ordinario di Venezia affinché venisse dichiarata l’illeggittimità del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile.

Il Tribunale sollevava questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), «nella parte in cui limita la tutela … delle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai “soli diritti … e doveri nascenti dall’unione civile”»; e dell’art. 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del d.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26 (Regolamento recante attuazione dell’articolo 5, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione), nella parte in cui «limita la possibilità di indicare il solo genitore “legittimo, nonché di quelli che rendono … o hanno dato il consenso ad essere nominati” e non anche alle donne tra loro unite civilmente e che abbiano fatto ricorso (all’estero) a procreazione medicalmente assistita», in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117 [primo comma] della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, con particolare riferimento all’art. 2.

Secondo il rimettente, il combinato disposto delle norme censurate pregiudicherebbe, infatti, alcuni diritti inviolabili della persona, quali il diritto alla genitorialità e il diritto alla procreazione nell’ambito di una unione civile legalmente riconosciuta nell’ordinamento italiano; discriminerebbe i cittadini per il loro orientamento sessuale ed in considerazione delle condizioni patrimoniali in cui versano le coppie; introdurrebbe, anche avuto riguardo al panorama della legislazione europea, un irragionevole divieto basato su discriminazioni per mere ragioni legate all’orientamento sessuale dei componenti la coppia.

La decisione della Corte Costituzionale.

La Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sul punto, afferma che il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto da alcun precetto Costituzionale, sebbene la Costituzione non sia chiusa a soluzioni di segno diverso ma sulla base di valutazioni spettanti al legislatore.

La Corte a supporto delle sua decisione ha citato la propria recente pronuncia, secondo cui l’esclusione delle coppie formate da due donne dalle tecniche di procreazione medicalmente assistita non è fonte di distonia né di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale (sentenza n. 221 del 2019).

Questa è una tesi confermata anche dalla CEDU, secondo cui una legge nazionale che riserva il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole finalità terapeutica, non può dar luogo ad un’ingiustificata e rilevante disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, proprio perché le due situazioni non sono tra loro paragonabili (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).

La stessa Corte di Cassazione, pronunciandosi in una fattispecie analoga a quella in esame, ha negato la rettifica dell’atto di nascita di un minore nato in Italia, proprio in ragione del divieto di ricorso alla PMA per coppie dello stesso sesso, vigente in Italia (Corte di Cassazione, sezione prima civile, sentenza 3 aprile 2020, n. 7668).

In conclusione la Corte afferma che la materia deve essere affidata al legislatore poiché la piena tutela dell’interesse del minore può essere oggetto solo di apposito intervento da parte dello stesso, nell’esercizio della sua discrezionalità.

Avv. Gennaro Colangelo                                                               Dr.ssa Bruna Moretti

 

Si allega sentenza n. 230/2020 della Corte Costituzionale.

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