TUTELARE IL PATRIMONIO CON IL FONDO PATRIMONIALE / seconda parte avv. Elisa Boreatti

Elisa Boreatti
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Si è già visto (con l’approfondimento di mercoledì precedente approfondimento che con la riforma del diritto di famiglia (legge 151/75) il legislatore ha introdotto nel Libro I “Delle persone e della famiglia” l’istituto del fondo patrimoniale (art. 167 cc e ss) che si presenta come un vincolo che viene impresso ai beni del patrimonio familiare a supporto e a sostegno dei bisogni della famiglia in modo tale da fornire a quest’ultima un “patrimonio” non aggredibile da terzi soggetti.

La norma stigmatizza, quindi, una delle ipotesi previste dal secondo comma dell’art. 2740 cc, ossia una delle ipotesi in cui è la legge stessa a prevedere che la responsabilità patrimoniale di un soggetto, in deroga a quanto previsto al primo comma, subisca delle limitazioni. Si ricorda, infatti, che il primo comma sancisce il principio di responsabilità generale in forza del quale il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi bene presenti e futuri.

Proseguiamo oggi con la trattazione dell’istituto.

Titolarietà e amministrazione del patrimonio destinato

L’art. 168 cc è la norma rubricata “impiego ed amministrazione del fondo” che disciplina al primo comma la proprietà dei beni vincolati stabilendo che essa è di entrambi i coniugi salvo che non sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione. Il terzo comma è, invece, volto a disporre della amministrazione del patrimonio che è affidata ad entrambi i coniugi anche se la proprietà dovesse essere di uno solo (questo si ricava dal rimando che la norma fa all’art. 180 cc che tratta della amministrazione dei beni in comunione).

In punto di amministrazione dei beni va segnalato anche un altro aspetto. Infatti, come si ricava dalla lettura dell’art. 169 cc i coniugi, nel caso in cui non sia previsto nell’atto costitutivo, se entrambi d’accordo, possono alienare, vincolare, dare in pegno i beni del fondo. Tale “libertà di azione” è invece limitata nel caso in cui vi siano figli minori. In presenza di questi, infatti, oltre all’accordo dei coniugi è necessaria anche l’autorizzazione da parte del giudice.  Infatti se vero è che la costituzione del fondo non determina per ciò solo la perdita della proprietà dei singoli beni da parte dei coniugi che ne sono titolari e che gli stessi possono riservarsi nell’atto di costituzione la facoltà di alienazione dei beni, è pur vero che la detta istituzione (peraltro concretizzata per effetto di una libera scelta dalle parti) determina un vincolo di destinazione per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia (e quindi di tutti i suoi componenti, in essi compresi i figli minori), che il legislatore ha inteso assicurare con la previsione di una serie di misure di sostegno in favore dei componenti più deboli, fra le quali particolarmente significativa risulta quella sopra citata per la quale, ricorrendone le prescritte condizioni, il giudice può attribuire in proprietà ai figli una quota dei beni così legittimando, sostanzialmente, una espropriazione per tale causa. In presenza di figli minori, pertanto, è necessaria precipua autorizzazione giudiziale. In questo caso, l’intervento del giudice è necessario per valutare l’interesse dei figli ad interloquire sulle opzioni dei genitori, ad esempio mediante audizione ex art. 336-bis oppure mediante nomina di un curatore speciale. Atti che però non sono consequenziali tout court alla istanza dei genitori di disporre del fondo: è giudice che ha il compito di verificare se in concreto sussista la necessità di questi atti, per conflitto di interessi (Trib. Milano 30 marzo 2015).

Collegata all’anzidetta questione vi è poi quella se, in caso di alienazione, sussista un obbligo di reimpiego del ricavato. A tal riguardosi osserva che l’art. 169 cc nulla dispone al riguardo e, pertanto, è stato sostenuto che sarebbe arbitrario limitare l’autonomia contrattuale anche perché gli obblighi di reimpiego, proprio a fronte della limitazione apportata all’autonomia, sono testualmente previsti dalla legge.

Effetti della costituzione del fondo

L’apposizione del vincolo determina la creazione di un patrimonio separato rispetto a quello residuo della famiglia e l’annotazione dello stesso a margine dell’atto di matrimonio ne determina l’opponibilità ai terzi.

Questo vuol dire anche che i beni e i loro frutti possono essere aggrediti da parte dei creditori solo se la fonte che ha generato il credito è volta a dare attuazione al vincolo impresso. Ne consegue che non possono avviare azioni esecutive sui beni del patrimonio destinato i creditori personali dei coniugi.

Ora atteso che la creazione del patrimonio destinato crea una riduzione del patrimonio del debitore e quindi determina una riduzione della garanzia patrimoniale generale così come enunciata dall’art. 2740 cc primo comma ai creditori “non vincolati” viene riconosciuta la possibilità di avviare, sussistendone i presupposti, l’azione revocatoria ordinaria o fallimentare al fine di veder “revocato” il vincolo impresso dai disponenti. Per avviare l’azione giudiziaria è necessario che vi siano i di seguito indicati presupposti: esistenza del credito, fumus boni iuris, l’eventus damni, la scientia fraudis.

Ma non solo. L’azione deve essere esercitata entro 5 danni dalla annotazione del vincolo a margine dell’atto di matrimonio. Trascorso questo termine l’uscita del bene dal patrimonio unitariamente considerato dei coniugi diventa irrevocabile. In tema di revocatoria ordinaria, la Suprema Corte reputa che l’art. 2903 – laddove stabilisce che l’azione revocatoria si prescrive in cinque anni dalla data dell’atto – debba essere interpretato, attraverso il coordinamento con la regola contenuta nell’art. 2935, nel senso che la prescrizione decorre dal giorno in cui dell’atto è stata data pubblicità ai terzi, in quanto solo da questo momento il diritto può esser fatto valere e l’inerzia del titolare protratta nel tempo assume effetto estintivo. In tal senso, la Cassazione, su un’azione revocatoria ordinaria di costituzione del fondo patrimoniale, ha ritenuto la decorrenza della prescrizione non dalla stipula dell’atto, ma dal giorno dell’annotazione dell’atto stesso nei registri dello stato civile (Cass. n. 5889/2016).

In tema di fondo patrimoniale si sottolinea altresì quanto segue. Il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo va ricercato non già nella natura dell’obbligazione ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicché anche un debito sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari (nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia) ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi. Quindi, se è vero che la finalità familiare del debito non si può dire insussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa, è vero altresì che tale circostanza non è nemmeno idonea ad escludere in via di principio che il debito si possa dire contratto, appunto, per soddisfare detti bisogni, tenendo conto del fatto che nei bisogni familiari sono ricompresi anche le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia nonché al potenziamento della capacità lavorativa del familiare, con esclusione solo delle esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (Tribunale di Ancona 29.10.2019 nr. 1831).

Si segnala tuttavia che la posizione di “intoccabilità” dei beni facenti parte del patrimonio separato si è andata con tempo attenuando.

Ci si riferisce in particolare a quanto disposto dall’art. 2929 bis cc rubricato “Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazione a titolo gratuito”. Questa norma è stata inserita dalla L. 132/2015 di conversione del DL 83/2015 che al suo articolo 23 dispone che la stessa di applica esclusivamente alle procedure esecutive iniziate successivamente alla data di entrata in vigore del decreto stesso. La novità introdotta è che il legislatore ha reso pignorabili da parte anche dei creditori non vincolati i beni appartenenti al fondo patrimoniale se provvedono alla trascrizione del pignoramento entro l’anno successivo alla costituzione del fondo stesso.

Ma non solo. Nel corso degli anni si è altresì ampliato il concetto di “bisogni di famiglia” rendendo così aggredibile i beni anche per debiti di natura fiscale e lavorativa rimanendo sempre, invece, non pignorabili se il debito è stato contratto per motivi vollutuari.

Cessazione del fondo

Alla luce della ratio per cui è stato istituito l’art. 171 cc stabilisce che cause di cessazione del vincolo sono l’annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Va sottolineato, tuttavia, che in presenza di figli minori il vincolo permane fino al raggiungimento della loro maggiore età. Si segnala, inoltre, che la convenzione matrimoniale che prevede la scelta dei coniugi di destinare alcuni beni ai bisogni della famiglia è modificabile in ogni momento nelle forme di cui all’art. 163 cc. In dottrina si ritiene che nel concetto di modificabilità possa rientrare anche lo scioglimento della convenzione, cioè la cessazione volontaria del fondo per mutuo consenso dei coniugi che determina il dissolvimento del vincolo sui beni separati e quindi il rientro di questi ultimi nel primo comma dell’art. 2740 cc. Va segnalato, tuttavia, che sussiste una posizione contraria in dottrina che fa leva sulla tassatività dell’elencazione di cui all’art. 171 cc e la prevalenza degli interessi familiari che priverebbe i coniugi, una volta costituito il vincolo, del potere di sottrarre i beni ad esso assoggettato.

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